Prometeo, con il suo dono agli uomini permette loro di affrancarsi dalla dipendenza ed essere artefici della propria vita.
Guardando la Terra dall'alto dell'Olimpo, Giove la vedeva deserta e desolata. Era abitata da uomini e da animali, ma essi vivevano miseramente, nascosti nelle loro tane e nelle profonde caverne dalle quali non osavano uscire che raramente: solo di notte, gli uni temendo gli altri, s'avventuravano fuori in cerca di cibo.
Epimeteo, sceso sulla Terra, diede a tutte le creature quanto ad esse occorreva: qualcuna ebbe zanne ed artigli; altre ebbero ali per volare, fiuto sottile, udito pronto; altre ancora ebbero la velocità nella corsa, altre l'astuzia, altre la forza.
Soltanto l'uomo, pieno di paura, rimase nascosto e non si fece avanti per cui Epimeteo si dimenticò di lui e non gli diede nulla.
Di ciò s'accorse Prometeo, fratello di Epimeteo. Prometeo era il più intelligente di tutti i Titani. Aveva assistito alla nascita di Minerva, dea della sapienza, dalla testa di Giove, e la dea stessa gli aveva insegnato l'architettura, l'astronomia, la matematica, la medicina, l'arte di lavorare i metalli, l'arte della navigazione.
Prometeo, che amava molto il genere umano, aveva a sua volta generosamente insegnato tutte queste arti ai mortali. Aveva un grosso cruccio, però, che gli uomini non conoscessero ancora il fuoco e conducessero una vita graffia e meschina, molto simile a quella delle bestie.
Poiché non poteva accettare che soccombessero alla forza della Natura o alla ferocia delle belve, pensò di dar loro questo prezioso dono che li avrebbe resi i padroni indiscussi della Terra.
Col fuoco gli uomini avrebbero potuto scaldarsi d'inverno, cuocere la carne che, come animali e con gran fatica, mangiavano cruda; tenere lontane le fiere, illuminare le caverne e la notte; avrebbero potuto fondere i metalli e darsi così attrezzi per lavorare la terra ed armi per difendersi e cacciare.
Ma esso apparteneva agli Dei che ne erano assai gelosi ed era ben protetto nelle viscere della Terra nell'officina di Vulcano, il dio del fuoco, che fabbricava, con l'aiuto dei Ciclopi, i fulmini di Giove.
Prometeo pensò di rubarlo e una notte, dopo aver addormentato Vulcano con una tazza di vino drogato, rubò qualche scintilla che nascose in un bastone di ferro cavo; poi corse dagli uomini ed annunciò che recava loro il dono più grande.
Avvampando d'ira esclamò che colui che aveva rubato il fuoco doveva essere terribilmente punito, e vedendo Prometeo tra gli uomini capì di chi fosse stata la colpa. Incaricò Vulcano, reo di non aver saputo custodire a dovere il fuoco, di eseguire la condanna.
Vulcano, obbedendo a malincuore agli ordini impartiti da Giove, incatenò Prometeo su un'alta rupe; ribattendo col martello le infrangibili catene che aveva preparato, Vulcano disse a Prometeo di farsi coraggio perchè avrebbe dovuto soffrire la fame, la sete e il freddo, e di consolarsi pensando che senza di lui gli uomini sarebbero stati presto sterminati.
Vulcano se ne andò e Prometeo rimase lassù, legato sulle rocce e su vertiginosi precipizi. Ma non dovette soffrire solo fame, freddo e sete! Ogni giorno, infatti, una grande aquila veniva svolazzando da lui e con gli artigli gli squarciava il ventre, divorandogli il fegato col becco adunco; durante la notte il fegato ricresceva, le ferite si rimarginavano e il mattino dopo Prometeo doveva subire nuovamente il martirio.
Un giorno Ercole vide l'aquila straziare Prometeo incatenato; col permesso di Giove, suo padre, abbattè allora il rapace e spezzò le catene: Giove dall'Olimpo, volgendo gli occhi al cielo, annunciò a Prometeo che lo rendeva libero.
A quel punto Prometeo gli espresse il desiderio di restare per sempre su quel monte, così, guardandolo, gli uomini si sarebbero rammentati che era stato lui a dar loro il fuoco.
Fu trasformato, subito, in una grande e maestosa roccia.
Nessun commento:
Posta un commento